I miti e la storia Attraverso la scrittura poetica di Giuseppe Gangale Primi appunti Di Michele Gangale
Una ricerca nuova e fondativa
portò il Professore in mezzo a uomini e a comunità dimenticate(le comunità arberische della Calabria ),coglie le inquietudini e le aperture religiose degli anni 60 e 70.(1) Un commento accurato e molto aderente accompagna i testi poetici delle sezione del libro “Rapsodiae Arberiscae apocryphae” (articolata in tre momenti: Hiturit(L’entrata)-Te proit i Kalavriisy(nel porto di Calabria); Teety konka ppy teety katunde(otto canti per otto villaggi ) e Gjashty konka ppy spirtim tiimy ( sei canti per il mio spirito),un commento illuminante e indispensabile per il lettore: Giovanni Giudice ,con sintesi efficace, inquadra il di volta in volta il testo poetico, tratteggia il significato complessivo del testo,lo colloca nell’ itinerario e nella ricerca culturale ed esistenziale di G.Gangale. Attraverso tale lavoro scrupoloso, di ricostruzione storica,di documentazione e di indagine culturale sui testi, le pagine poetiche di G.Gangale manifestano tutta la loro ricchezza espressiva e rendono visibili i significati culturali ed antropologici. Un commento così denso è frutto di un lavoro condotto con tenacia per diversi anni, è frutto di letture e di studio,esso nasce da adesione profonda e affettuosa verso la figura di Giuseppe Gangale; le poesie arberische sembrano rivelare “ qualcosa”, portano alla luce cose che avverte dentro, riconducono il ricercatore sulle orme della propria terra, gli fanno rivivere parole e miti antichi. I canti della sezione “Rapsodiae arberiscae” si presentano come rapsodie , in quanto ripropongono nel ritmo, a volte nelle immagini, le antiche rapsodie arberische.(2) La scrittura di Gangale lascia intravedere una certa idea di letteratura:la letteratura come memoria lunga,come memoria e come dialogo con se stessi e con gli altri. A lettura conclusa , un punto forte prende consistenza nell’animo del lettore:la produzione poetica di Gangale contribuisce ad arricchire il patrimonio lessicale della lingua arberisca, a dare nuova duttilità alla lingua sressa, mostrandone la ricchezza espressiva e la capacità di tratteggiare con la parola le sfumature della luce e dell’ombra.Giuseppe Gangale ha mostrato così come la lingua arberisca,gradualmente, può configurarsi come lingua della scrittura Giovanni Giudice ha saputo “operare”, ha saputo custodire in sé una scintilla della lezione di Giuseppe Gangale, ed ha continuato e continua a seminare “quel” seme con lavoro paziente e con grande tenacia.Il suo lavoro rappresenta un dono per tutti noi, un invito forte a conoscere più a fondo la figura di Giuseppe Gangale,la sua produzione poetica, il suo impegno per la salvezza delle lingue minoritarie in Europa.
G.Gangale e il tempo presente . Spinte culturali,esistenziali,religiose e occasioni diverse sono alla base delle rapsodie di G.Gangale. Il Poeta,ora esplicitamente ora implicitamente si misura con la condizione e con la sensibilità dei moderni:I miti antichi,gli eventi legati alle memorie familiari,o alle visite nei diversi paesi arbyresh, vengono ripensate : assumono un significato ampio,ci parlano della contemporaneità, del nostro presente,della vita segnata da disincanto e da senso di perdita, del bisogno di ridefinire un rapporto con la memoria sociale,della vita presente segnata da ombre e bisognosa di riferimenti forti e di “significati”. Attraverso alcuni passaggi poetici ( di seguito richiamati) si vogliono proporre alcune prime ipotesi di lettura ,in tal senso.
Ridefinire un rapporto con la memoria Il mito dell’erranza
Nella poesia Te proit e Kalavriis(nel porto di Calabria) si delinea un mare attraversato da profughi, stipati su tre vascelli (sono gli arbyresh partiti dai lidi della Morea nella seconda metà del XV secolo) Un viaggio difficile,ma animato dalla speranza.. Una madre allatta il bambino e gli canta una ninna nanna, ed esprime orgoglio e gioia a pensare il momento dell’approdo, quando i calabresi,i latini, si faranno incontro e faranno festa al bambino. In tale scenario, segnato da trepidazione e dal tempo dell’attesa, il pensiero si volge al futuro per immaginare aspetti della nuova vita nelle terre calabresi:una nuova vita segnata dalla fine delle peregrinazioni e delle violenze turche,dal bisogno di fermarsi,per avere una casa, una vigna, per formare una famiglia.
Fillix bbiir , se ndzitu rremi Te ku thuhet Kalavrii Kalavrii e pa kjen –turk! bbiir-oo!
Kuury rremi kettyyy vreenjin Kalavritira llitiraa Zzillin bbukur bbiir u kaamy bbiir-oo!
Idhi at, i “ mustak-zhiu “ Katty billenj tix njy vresty E ty stissinj njy stupii! Pp’aty ddit ccy ti martohyx bbiir-oo!
(Dormifiglio,arriviamo presto dove Calabria si chiama, Calabria e senza cane-turco figliio-oo! Quando arriviamo, devon guardare i latini Calabresi che bel figlio possiedo io f iglio-oo! Il padre tuo,il “baffo-nero” una vigna ti deve comprare una casa tideve fare! Per quel giorno che ti sposi figlio-oo! )
Il marito costruirà la casa, con una finestra che guardi al mare Jonio, rivolta verso la Morea- si da ricordare la terra da cui sono partiti. La partenza (si pensi alla bellissima rapsodia “E bbukura Morè”)(3) rappresenta l’evento doloroso e fondante della vita delle popolazioni arbyreshyl .Ricordare,attraverso il canto ela danza, significa dare durata a quell’evento. Tali scenari trovano arricchimenti di notevole rilievo antropologico nella poesia Shumyrii e Itriesy te Andali(Madonna d’Itria ad Andali). In essa il Poeta ricorda che un’icona della Madonna, portata da Demetrio, ha accompagnato Il viaggio dei profughi. Si tratta della Madonna d’Itria (Guida del Cammino), custodita come cosa preziosa e invocata dalle donne perché liberasse dal pericolo delle persecuzioni turche, perché salvasse dalle onde, perché fosse guida e protettrice duramnte la traversata. I migranti arbyreshy , sul piano storico, hanno manifestato a lungo la propria devozione verso la Madonna d’Itria, hanno custodito un legame profondo col cristianesimo di rito greco,che ha rappresentato un riferimento religioso forte e unificante. In tempi segnati da disincanto e da scarsa propensione a ricordare, queste poesie di G.Gangale,miranti a ridefinire un rapporto con una memoria collettiva, esprimono una forte suggestione. Questi scenari richiamano alla mente del lettore un mito molto caro a G.Gangale, il mito dell’erranza. Esso ritorna ancora nella poesia Kroton,laddove il Poeta ricorda i monaci eremiti che percorrevano le terre argillose di Crotone portando con sé la madonna dal volto nero.Il Poeta “esprime commozione per la nera madonna degli eremiti”(G.Giudice) Si tratta di un mito molto caro,come si diceva, a Gangale,al suo percorso spirituale,alla sua inquietudine di uomo in ricerca, un mito rilevante nella sua produzione poetica e nella sua riflessione (4) Il mito come riferimento condiviso,come espressione di un legame profondo con una cultura,come“spazio della comunicazione” (5).Il mito è tale perché è “numinoso”, si esprime cioè con la Parola fascinosa,radicata e antica delle parlate arbyreshy. Echi del mito dell’erranza sembrano riecheggiare nelle parole di uno storico di Cirò, della seconda metà dell’0ttocento,allorché ricorda antichi riti carichi di memoria.
“La sera era poi commovente di vederli in catene (ty llidhura) secondo l’uso della loro danza (vale,vagha) scendere al lido (mattu) inginocchiarsi a quelle onde (suvalle) che venivano dalla loro antica patria a infrangersi in queste arene, e intonare le loro lunghe cantilene (konka) in lode (ledimi) di quell’elemento, miste a’ sospiri (shertime) per l’abbandonata lor sede: l’onda doveva tre volte battergli le ginocchia,ricevere i loro voti e riportarli all’antico patrio lido (pyrkytex ddeetit): dopo di che danzando (tue valuar) e sempre raggirandosi nella loro catena risalivano in fiera(hipin te panajira). Quanto era dolce rimembrare la patria, di cantare le lodi di Skanderbek, e quanto tenero e commovente il ricordo dei loro mali!”(5)
Penso che il mito dell’erranza, che appartiene a diverse culture mediterranee,rivisitato oggi in una certa direzione, si presenta ricco di implicazioni culturali: in un mondo in cui spesso i riferimenti al territorio e al confine significano culto del territorio e del confine, segno di frattura e di contrapposizione,una suggestione culturale deriva da parole antiche del tutto estranee a ogni culto del confine e del territorio, parole che prefigurano rapporti miranti a tenere vivo lo spazio della memoria e della comunicazione. Inoltre, il mito del seme disperso può proiettarsi verso il “nomadismo culturale”,cioè può rappresentare uno stimolo ad aprirsi all’altro, a dialogare con le culture, a considerare e a vivere in positivo la dimensione dell’arcipelago, a considerare le identità e le differenze entro un mosaico di differenze(una ricerca in tal senso è viva nella cultura contemporanea,si pensi a Magris, Matvejevic,Cacciari), a considerare e a vivere in positivo la dimensione dell’arcipelago.
Vivere nel mondo contemporaneo Nostalgia del mito e disincanto
Consideriamo ora la poesia Persephone-tue vretur Persephonen ka Locri ndy Kalavria (Persefone o Kore-contemplando la Persefone di Locri in Calabria) .”scritta prima in lingua greca della Calabria (dorico) e in seguito portata nella lingua dei Bresci”(6) Il mito di Persefone o Kore,mito antichissimo , viene ripensato dalla sensibilità del poeta segnata da tristezza e disincanto. Scaturisce,con particolare evidenza nella parte conclusiva della poesia una riflessione pensosa sul proprio percorso esistenziale, dalla nativa Cirò verso le strade del mondo, un percorso segnato dall’impossibilità di ogni ritorno “E’ il dramma suo e di tutti” (G.Giudice ) Aspirazione alla luce e nostalgia della luce (trovano rilievo e forza espressiva,infatti,quei tratti antichissimi,e luminosi, del paesaggio siciliano e mediterraneo,rivissuti intensamente nel contesto poetico(si pensi alle espressioni llivadha: le praterie, lullat: i fiori, tombul miax: il dolce miele, anamesa kalisvet e dheravet: in mezzo alle spighe dei campi) e nel contempo consapevolezza che le tenebre incombono
O tri heery e llùmea Dhimitriiiiidhe Persephoneja Se Shortia lla zza heer te jeeta t’e ntehecc e joma ngka heer ddual saty pyrpiekjix.
Neve,kur prirem te dherat ka u lleum tue kyrkua gjurmaaaat ty bbardha e kopilleriis, yngk ddell’ tue kjeshur me llot, joma te praku, e kuur nare u gkramisim nd’ Hades e xeem, Shortia mo ngky lle te llivadha ty ntehemi stoneony ty llumia ndoony ddìalit vereie.
(O tre volte beata Persefone di Demetra figlia! Che la Sorte tante volte ti lasciò tornare al mondo E tua madre ogni volta uscì per incontrarti.
A noi, quando nelle terre ritorniamo dove nascemmo Le bianche vestigia cercando di gioventù, non esce sorridendo con lacrime,la madre sull’uscio, e quando noi nell’ombroso Ade precipitiamo, la Sorte più non lascia ritornar nei prati sempre beati sotto il sol di primavera.)
Questa composizione torna a documentare la profonda frequentazione della cultura greca da parte di Giuseppe Gangale,la sua predilezione per miti antichissimi, vivi nell’area Mediterranea. Sono indicatori rilevanti in questa poesia la figura della madre e l’opposizione luce-tenebre,sono fermenti vivi nelle culture del lontano passato e sono altresì riferimenti forti nelle elaborazioni culturali contemporanee. Trovano rilievo infatti e tratti originali nelle scritture “mediterranee” di Albert Camus e di Carmine Abate. (7)
Le parole morte
La poesia Parakallesurit ty mromines (Preghiera della sera)presenta l’uomo Gangale nella sua nudità, nella sua solitudine estrema,mentre si piega al mistero con le parole antiche della tanto amata lingua arberisca:
Zhot,tire sheh teku rreeva: Udha e gkillate ishe, dderaty tonde tyngkushta, si o’ i skruary. Si ti ddeshe,stupiiny ure llasta, moora trastyrin e bboora rraddeeres. Si tireddeshekapyrzeva ure malle e llumera …
(Signore,tu vedi dove son arrivato: la strada era lunga le tue porte strette,com’è scritto. Come tu hai voluto, la casa lasciai, presi il sacco e feci l’accattone: Come tu hai voluto attraversai io monti e fiumi…)
Cerca ora l’incontro con l’Ineffabile con le” parole morte”:esse sciolgono la lingua, con esse gli riesce di pregare Sono le parole dei suoi padri-originari di Carfizzi, un paese arbyreshy nelle vicinanze di Cirò. Le parole morte della lingua arberisca,una lingua lasciata per lungo tempo ai margini,considerata da molti lingua povera e dura, lingua di gente povera, e come tale da abbandonare al suo destino. Per Giuseppe Gangale quella lingua ha le parole per esprimere il mistero cristiano,essa può esprimere germi di vita e di umanità.
Se il seme non muore I percorsi identitari
Parlare arbyreshy con gli arbyreshy-lui che si definiva un arbyreshy di adozione-,portarsi sul terreno dell’interlocutore, tradurre in collaborazione con gli arbyreshy il primo canto dell’Odissea o l’Agamennone di Eschilo, immergersi nella vita sociale dei paesi arbereschi, comporre poesie, così ricche dal lato lessicale ed espressivo, in una lingua minoritaria,sottolineare l’importanza dei mediatori culturali interni alla cultura arberisca, tutto ciò rappresenta una via maestra da percorrere, una scelta straordinaria per quegli anni sessanta e settanta segnati spesso nel senso comune da scarsa considerazione per la lingua arberisca, in quanto lingua di gente povera, di contadini e di braccianti. Attraverso queste scelte culturali e attraverso questo modo di operare, G.Gangale ha indicato una strada maestra da percorrere. “Le lingue sono forse ciò che le nostre culture hanno di più vivo”.(8) Una lingua è viva,può rinnovare la propria vita e sfuggire al disastro se noi la adoperiamo, se i paesi non si spopolano, se poniamo la lingua quale veicolo di comunicazione e di scrittura, essa è viva se ha le parole per raccontare storie, per alimentare speranze o per attenuare il nulla , per evocare i defunti per richiamare memorie ,per esprimere i misteri cristiani.
So che oggi tutto è ancora difficile per gli arbyreshy, nonostante fioriscano iniziative,nonostante esista una legge di tutela e nonostante l’attenzione della comunità europea verso le lingue minoritarie. Tutto è difficile perché in questi decenni i paesi arbereschi si sono spopolati, perché proseguono i processi di deculturazione,perché premono modelli culturali elaborati altrove.Inoltre scarso rilievo rivestono ancora , in ambienti religiosi e universitari, le proposte di Gangale ,sia per quanto riguarda la grafia da adottare, sia per quanto riguarda la collocazione storica e culturale delle comunità arberische. Adottare la grafia schipetara o sostenere che le comunità arberische sono parte integrante del mondo “etnico” albanese significa come sottolineava Gangale svuotare la dimensione di lingua e cultura minoritaria,nella specificità del suo percorso storico e del suo esistere. (9) Tuttora alcuni papas e studiosi,in Calabria e altrove usano parlare dell’Albania come “madrepatria”,per sottolineare l’unità “etnica” delle popolazioni “albanesi”.Una tale impostazione dimentica che gli arbyreshy venivano da diverse aree balcaniche, ma in particolare dall’Albania meridionale e dalla Grecia meridionale(Peloponneso o Morea) e ignora i “percorsi identitari”, l’incidenza ,cioè, delle vicende storiche,,gli apporti nuovi che sono intervenuti in cinque secoli e che hanno portato le comunità arbyrehy e le popolazioni schipetare a percorrere itinerari storici e culturali diversi.(10) Gli arbyreshy, in realtà , non hanno una terra originaria e storicamente determinata cui ricondursi o richiamarsi.Nel comune sentire gli arbyreshy sono del tutto estranei in particolare alle elaborazioni dell’”albanesità”(discendenza comune dagli illiri, culto dell’etnia e della nazione, ideologia del nemico),coltivate nell’800 e nel 900, e tuttora resistenti nel tessuto sociale,in Albania.Per gli arbyreshy la “madrepatria” può consistere piuttosto in un mito,nel mito della Morea, ovverosia nel mito dell’erranza, da rileggere e da “inverare”: La collaborazione tra comunità arberische e comunità schipetare va maturata sul terreno della ricerca culturale tra lingue imparentate e ancor più sul terreno della ricerca e della condivisione di un ethos più alto,sul terreno dell’impegno per con-vivere nell’area balcanica e altrove,fuori da qualsiasi animosità “etnica”.(11)
Una riflessione conclusiva
Sono passati 30 anni e oltre da quando Giuseppe Gangale scriveva sul mito dell’erranza,proponeva le immagini poetiche del mediterraneo attraversato da tre vascelli e animato da nuove speranze. Trenta anni sono passati anche per coloro che, allora molto giovani, ascoltavano le parole del Professore ancora segnate sui manoscritti . Certo quelle pagine rilette oggi rendono pensosi . Le vicende tragiche di questi anni e di questi mesi ci dicono che il mare dei miti, il mare “archivio di memorie”, un’area in cui popolazioni e culture si sono “contaminate”, hanno costruito –in alcuni momenti della storia- spazi di comunicazione e di convivenza , è divenuto oggi un’ area di nuovi conflitti,un mare di naufragi.. Nazionalismi e nuove separatezze spingono a intraprendere viaggi della disperazione su barconi stipati,provenienti da diverse sponde del Mediterraneo. “Questo mare nostro si sta riempiendo di corpi annegati e carcasse di navi” (12),mentre l’Europa sembra ignara del suo mare, ovvero,come in più occasioni ha ripetuto Predrag Matvejevic, mentre“si costruisce l’Europa senza la culla dell’Europa”
N o t e 1)Piccoli indizi su una più ampia apertura verso il mondo cristiano ,nella ricchezza delle sue manifestazioni, possono essere rappresentati da alcune espressioni che ho sentito dire al Professore durante un incontro da giovane studente delle superiori a Crotone, lo informai una volta che una certa domenica dovevo recarmi a messa; lo vidi farsi pensoso e dirmi:”Moss shkatroni bbesen” (Non guastate la fede!). Altra volta ebbe a dirmi che avere letto molti libri non comporta di per sé un valore agli occhi di Dio,in quanto lo Spirito può soffiare dappertutto,anche in una povera popolana priva di cultura.
2)Vedi D.Camarda ,Appendice al saggio di Grammatologia Comparata, Alberghetti, Prato, 1866, cit.in G.Giudice,Le poesie di Giuseppe Vangale,Rubbettino,2003,pp.94-96
3)Vedi G.Giudice,cit.,p.198
4)VediG.Gangale, Lingua arberisca restituenda, Crotone,1976
5)G.P.Pugliese, Descrizione et istorica narrazione di Cirò, Brenner ,Cosenza,cit.in G.Giudice,op.cit.p.200 6)Nota di G.Gangale,in G.Giudice,cit.,p.213
7)Si vedano in particolare Albert Camus, Il primo uomo, Bompiani,1994 e Carmine Abate, La moto di Scanderbeg, Fazi ,1993
8)Claude Hagège,Morte e rinascita delle lingue,Feltrinelli,2002,p.8
9)Si veda G.Gangale,Lingua arberisca restituenda, op.cit. e per un contributo alla ricostruzione della problematica gangaleana si veda Leonardo M.Savoia,Per un’educazione arbereshe, in AA.VV:,I dialetti italo-albanesi(studi linguistici e storico-culturali sulle comunità arbereshe) a cura di F.Altimari e L.M.Savoia,Bulzoni,1994
10)”Nel corso di cinque secoli le popolazioni arbyreshy in Italia si sono trovate in situazioni storiche diverse,hanno interagito con la lingua e la cultura italiane,con le parlate e le culture regionali,hanno conosciuto il dramma dell’emigrazione e per tale via si sono sentite vicine agli altri gastarbeiter turchi o slavi in Germania,,,le popolazioni arbyreshy del crotonese conservano ancora vivo il ricordo delle lotte sociali per la terra nel secondo dopoguerra”,Michele Gangale,in “Storie e miti degli albanesi d’Italia”, sulla rivista “Nuova rassegna di studi meridionali”, N.4,1991
11)Si veda M.Gangale, Percorsi dell’identità, in “Il Territorio”,giugno 2002 12)L.Caminiti,L’olocausto del Mediterraneo, in “Mesogea”,n.0,2002 ,p.181 |
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