TESTIMONIANZA DI ENRICO FERRARO IN RICORDO DEL PROF. GANGALE DATA A CARAFFA DI CATANZARO IN DATA 28 AGOSTO 1998 IN OCCASIONE DI UNA "GIORNATA CELEBRATIVA DEDICATA A GIUSEPPE GANGALE" (CENTENARIO DELLA NASCITA, VENTENNALE DELLA MORTE)

Cari amici,

Nel tracciare un affettuoso ricordo del compianto Maestro, due sono i termini che mi vengono in mente in questo momento: “Onore”, ”privilegio”.

Onore e privilegio di essere stato vicino al Professore durante l’ultimo decennio della sua vita e di doverlo oggi ricordare.

Cercherò, cosa non facile, d’essere sintetico nell’offrire un ulteriore contributo alle vostre conoscenze.

Si lavorava intensamente, in quanto il tempo era prezioso: niente debolezze o manifestazioni esteriori, perdite di tempo.

L’arbyreshy era al primo posto.

Per questo occorreva estraniarsi dal mondo circostante lavorando nel chiuso di un ambiente, con le tapparelle delle finestre completamente abbassate e illuminato dalla luce artificiale.

Fuori c’era un sole pungente e un caldo avvolgente.

Bisognava lavorare in un’immersione totale nell’arbyreshy.

In un ambiente simile ci si poteva immaginare in qualsiasi punto della terra.

Si lavorava sodo per la lingua e a volte singolarmente o a gruppi separati in ambienti o in orari diversi, senza possibili incontri, per evitare chiacchiere inutili, per non sciupare il tempo prezioso a nostra disposizione a discapito dell’arbyreshy

Gli incontri dovevano essere utili, costruttivi per la causa dell’arbyreshy, quindi programmati.

La lingua parlata naturalmente era l’arbyreshy e soltanto l’arbyreshy senza nessuna trasgressione.

Ricordo quelle lunghe ore trascorse accanto al “Professore” in simili ambienti incontaminati dalla non arberescità in un’atmosfera di completa, ripeto, arberescità, in uno studio ingombro di tavoli e scaffali; carichi di centinaia di carte, libri, vecchi manoscritti, documenti dall’acre odore dei fogli spesso ingialliti dal tempo, degli inchiostri.

Ogni cosa in quell’ambiente assumeva una dimensione irreale.

Non esisteva altro che l’arbyreshy…il Professore si aggirava discreto tra le sue carte, i libri, centellinando il suo caffè zuccheratissimo…quel caffè servito già da diverse ore…e, scriveva, scriveva, scriveva su tanti, tantissimi fogli con i suoi immancabili pennarelli e con una scrittura larga, veloce e scrivendo in piedi su un piano alto.

Quei fogli spesso, dovevo batterli a macchina più volte di bozza in bozza come si fa per la stampa di un libro.

Negli ultimi tempi, forse presagendo la sua imminente scomparsa, mi poneva tanti quesiti e progetti che avrebbe voluto realizzare e si mostrava ansioso per il tempo sempre più avaro e mi ripeteva quanto del resto si può riscontrare in “Lingua Arberisca Restituenda” e che io tenterò di sintetizzare.

Sosteneva che la salvezza della lingua arbyreshy non si risolve con una semplice introduzione di essa nella scuola.

L’insegnamento della lingua deve scaturire dalla parlata locale, non mediata da quella Sqip e con l’utilizzo di una grafia slavizzante e non latina estranea alla propria cultura.

Interessante il suo “Saggio sulla grafia schipetara-arbyreshy”.

Le madri sono le specifiche tramandatrici delle lingue.

La necessità quindi, di un insegnamento prescolare che rafforzasse quanto acquisito fuori della scuola attraverso il gioco e dalla viva voce della mamma.

Auspicava pertanto l’istituzione d'Asili nido “follée” “vivarium” linguistici.

La rivoluzione linguistica necessaria per salvare l’arbyreshy l’avrebbe dovuta produrre non la scuola, ma la famiglia.

Purtroppo la famiglia arbyreshy è da secoli demoralizzata, complessata, invasa da alloglotti e allogeni.

E’ comprensibile pertanto che fa da sé il suo genocidio.

Individuava fra l’altro le cause della crisi dell’arbyreshy:

-nell' imposizione del rito latino al posto del bizantino;

-ai matrimoni misti;

-nella legge contro l’analfabetismo e introduzione dell’italiano a fini politici unitari;

-ai mass media nel senso più lato del suo significato;

-alle mancanze familiari dovrebbero appunto rimediare la scuola materna e i giardini d’infanzia;

-la mancanza di “follée, nidi, mediante un insegnamento orale e non libresco e in stretta collaborazione con la famiglia.

Per la salvezza della lingua è necessaria un’inversione di tendenza:

Prendere coscienza delle proprie tradizioni, dei peculiari valori e trasformare il complesso d’inferiorità in un riscatto d’autenticità della propria cultura. Da “integrandi” diventare “deintegratori”. 

La lingua dev’essere vissuta e non appresa freddamente dal docente o attraverso i libri.

La parola deve offrire una magica evocazione di un momento vissuto.

La lingua vera è solo una anche nel poliglotta…la lingua originaria (numinosa).

Nel caso del bambino “dearberizzato” esiste nel subcosciente come qualità etnica, come “gjakky”, sangue.

L’arbyreshy per la sua restaurazione dovrebbe riprendere, nei propri insediamenti la sua funzione dominante così come l’ha avuta per oltre cinque secoli.

In quest'ambizioso programma di restaurazione arberesca o di “dearberizzazione” il rapporto con i calabresi non dovrebbe costituire un problema.

In fondo i calabresi sono prima greci e poi bizantini, “degrecizzati” e “debizantinizzati” da non molti secoli.

Anzi i “calabresi” potrebbero sentire o presentire l’opera di restaurazione come causa comune per la vecchia Calabria perché, se non sentono, presentano che in fondo gli arbereschi, bizantinizzati e grecizzati sono dei loro fratelli più fortunati.

Atteggiamento simpatetico.

Questo mito arbyreshy del “gjakky” in altre parole del sangue, non è un mito politico, né geografico, ma un sogno “atavico “nomadico”.

E’ un atto di fede, forma di legame ad una religione atavica, un legame che oggi si esterna solo nella parola la quale “nella sua rupestre incomprensibilità” per il “circumstrato”, assume quasi un carattere esoterico.

Questo mito del “gjakky” che esiste in forma romantica nella generazione dei nonni e resiste in quella dei padri dovrebbe essere ripensato e riformulato modernamente dalla generazione dei figli nei limiti in cui essa, in questo periodo di “crepuscolo degli dei” non è ancora caduto o resiste a cadere nel nullismo dell’auto integrazione.

Gli arbereschi rimangano arbereshi: questo è il ripensamento del mito antico del “gjakky i shprishur”, del sangue sparso.

Soltanto se una scintilla di questo mito che esiste ancora negli arbyreshy, potesse trovare le fascine capaci di alimentare la fiamma, la situazione linguistica sarebbe presto o tardi risolta.

Caraffa,28 agosto 1998

Enrico Ferraro

 

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