Intervista di Enrico Ferraro (immaginaria) al prof. Gangale in occasione delle manifestazioni deradiane: centenario della sua morte (1903-2003)
 

Professore, ricorre quest’anno il centenario della morte di Girolamo De Rada, vuole esprimere il suo pensiero?

 

Le feste per De Rada, le feste folkloristiche le vogliamo fare, ma non vogliamo conservare nulla dentro di noi perché in noi vi è il vuoto!

Nell’anno 1955 è avvenuto che il tesoro sperduto dei manoscritti di De Rada è venuto alla luce e noi avremmo dovuto conservare questo avvenimento come un segno perché si ritornasse al programma di De Rada.

 

Invece?

 

Invece ciò non è avvenuto!

Noi siamo sicuri di conoscere abbastanza la nostra cultura?

Noi parliamo e scriviamo una lingua al declino e ciò non è per colpa nostra.

De Rada, grande uomo che ha risvegliato la lingua degli arbereschi è morto ormai da molti anni.(1)

Tra il tempo in cui visse De Rada e il nostro tempo vi è il periodo nero 1903-1945.

Negli anni ’60 noi, minoranza dispersa della nostra gente di Calabria ci siamo fatti avanti per dire che eravamo come nell’anno 1945: senza speranza, senza una strada, che l’arberia calabrese si dissolveva…ma siamo rimasti inascoltati.

De Rada, questo faro della cultura basiliana e arberesca si è trasformato in uno strumento della politica estera presso il Ministero degli esteri del Re.

In questo modo iniziò il periodo nero, il periodo dei servi della politica, il tempo senza versi e senza poeti.

In quel tempo sono cresciuti i nostri padri. Che cosa valeva per i nostri padri la lingua del proprio villaggio?

E noi siamo cresciuti senza aiuto e nell’ignoranza dei portabandiera del nostro spirito.

E che desiderio avevamo ancora di essere arbereschi?

Il sogno della politica dei nostri padri non s’interruppe alla fine della guerra del 1945?

Il sogno della lingua “shkjipetara e pyrzhiary” non si è interrotta nella Shkjiperia nell’anno1950?

La Shkjiperia aveva trovato una sola strada che a noi fu negata. (2)

 

Quale strada ci fu negata?

 

Nel 1895 , nei giorni 1-2-3- ottobre al Congresso di Corigliano Calabro, Un comitato, formato da eminenti rappresentanti la cultura arberesca dei vari insediamenti arbereschi del tempo,(3)

sanciva di provvedere e per la prima volta:

a-     Alla costituzione di un alfabeto unico;

b-     Alla compilazione di un dizionario;

c-      Alla fondazione di una Società Nazionale Albanese;

d-     Alla pubblicazione di una Rivista Italo- Albanese;

e-     All’apertura di relazioni con la madre-patria.

 

De Rada aveva mandato la sua grammatica in Albania, proponendo il suo alfabeto come unico, comune e costante, ma aveva avuto un risoluto rifiuto.

Dall’altra sponda dell’Adriatico dicevano che “è la madrepatria che ha il diritto ad imporre l’alfabeto alle colonie e non viceversa”.

 

Certamente quanto è accaduto nel lontano 1895 ha la sua giusta valenza storica e di tutto rispetto, ma oggi che gli scenari storici e culturali sono mutati quegli avvenimenti  non andrebbero rivalutati e riconsiderati?

Allora, dunque, De Rada come reagì?

 

De Rada quindi non venne ascoltato e continuò per la sua strada gloriosa.

Sai che cosa scrisse ad Anselmo Lorecchio, tuo paesano, pallagorese?

Mos ndzini fákjen e shéite e fiállesy óony me shkrónjat ty húac!

“Non annerite, imbruttite il volto santo delle nostre parole con caratteri stranieri!

L’Archimandrita Camidecu da Castroregio, l’uomo più grande degli arbereschi dopo De  Rada, non tenne conto  del Congresso del 1908 di Monastir e del Convegno del 1917 di Skodra   e continuò a scrivere con l’alfabeto dei nostri padri.

Il grande vocabolario della nostra lingua, scritto da Camidecu, è scritto come noi oggi scriviamo, con caratteri latini.

 

Professore, non è che ci attardiamo in questi bizantinismi o per essere più popolare, cito un detto calabrese, “mentre il medico studia l’ammalato se ne va”!

E’ più urgente per una comunità linguistica agonizzante fissare rigidamente un’ortografia oppure incoraggiare, con il vivo esempio, l’intera popolazione arberesca di parlare la propria lingua in casa e fuori come rigorosamente fa Lei?

 

La nostra lingua vale molto e di ciò godiamo di una consapevolezza condivisa da molti studiosi arbereschi e non, e che, fra l’altro, noi siamo un museo culturale, un serbatoio da cui attingere sapere, Ma noi dobbiamo essere solo un museo o dobbiamo vivere? E, se dobbiamo vivere dobbiamo allontanarci da una politica fuorviante.

Noi non abbiamo bisogno se non dalla forza che viene dal nostro interno di essere una minoranza di valore e combattiva, che vuole esistere.

Quando noi arbereschi siamo giunti in Calabria abbiamo rivitalizzato la cultura greca e bizantina della Calabria in declino. Abbiamo dato e abbiamo avuto. Noi siamo pertanto due volte bizantini, dell’Est e dell’Ovest.

Questa è la cultura dei nostri padri e questa vogliamo mantenere perchè la lingua non può prescindere dalla cultura.

 

Possiamo fare a meno della cultura shkjipetara? A quel mito “del gjaku joony i shprishur” egregiamente esposta dal prof. Michele Gangale, nostro valido collaboratore negli anni ’70? (4)

 

La nostra lingua minoritaria è parente della Shkjipetara e dobbiamo naturalmente lavorare insieme animati da uno spirito di collaborazione proficua e di reciproca comprensione.

Noi non siamo solo arbereschi. Più della metà dei nomi e cognomi non sono arbereschi. Ciò vuol significare che siamo molto di più arbereschi per la cultura, lingua e tradizione, che arbereschi di estrazione.

Noi vogliamo rimanere come siamo, salvaguardare la nostra identità culturale.

Noi siamo il ramo antico della vecchia cultura albanese e cristiano-bizantina.

Dalla Calabria De Rada innalzò il vessillo per la redenzione della nostra lingua di qua e di là dell’altra sponda del mare.

Non a caso Nicola Ketta ebbe a dire che noi siamo stati il midollo della Shkjiperia.

Noi abbiamo la nostra grammatica molto ricca di antiche regole e la Grammatica di De Rada lo conferma. La pretesa di insegnare nelle nostre scuole una lingua estranea sopra la nostra ammalata può arrecare un danno e una confusione grande.

 

A questo punto qual è la soluzione possibile?

 

L’arberesco oggi è sentito e quindi parlato soltanto dalle classi più umili. Le classi abbienti e gli insegnanti parlano spesso l’arberesco tra di loro occasionalmente e se lo fanno parlano un arberesco calabresizzato. Non fanno il minimo sforzo per migliorarlo. Spesso si dimentica un termine arberesco usandone, senza riflettere, uno calabrese.

Pedagogia vuole che fuori e soprattutto nelle scuole si instauri un’inversione di tendenza, ovvero la ricostruzione della la lingua del proprio paese insieme ad una koiné con la parlata degli altri insediamenti arbereschi. 

Nel nostro linguaggio ci sono parole di origine greca e bizantina e toglierle dal vocabolario è un danno perchè fanno parte della nostra cultura.

Se queste parole vengono eliminate dalle nostre poesie, dalle Rapsodie, che cosa rimane? Senza le Rapsodie che cosa siamo? Che cosa sarebbe la nostra letteratura italiana senza Dante?

Noi abbiamo la nostra letteratura che è molto antica.

Matranga (1592), Filla (1737), Ketta (1790), Varibobba (1762), De Rada (1803), Santori (1839), Zh. Serembe (1880). E gli altri ancora.

Tutti questi illustri studiosi hanno scritto nella lingua del proprio paese e noi dobbiamo partire da loro se vogliamo che l’arberesco riviva nella lingua parlata e nella letteratura.

Così fece De Rada quando nel Milosao (1836) elevò la metrica della vala, ovvero la danza rituale del paese, in un verso nuovo e colto tanto da attirare l’attenzione degli studiosi di tutta Europa e da entrare a pieno diritto tra i grandi della cultura europea.

 

Quale strada quindi seguire?

 

La Shkjiperia ha trovato la sua naturale e autonoma strada e perchè a noi dev’essere negata?

Per questo ognuno dovrebbe seguire la propria strada.

In Svizzera esiste la lingua Ladina vicina a quella italiana.

I ladini sin dal 1535 scrivono con caratteri di scrittura diversi e nessun italiano dell’Italia ha imposto qualcosa di diverso.

Noi dovremmo scrivere con caratteri estranei alla nostra cultura soltanto perchè siamo parenti degli shkjipetari?

Ma non è questo il luogo per spiegare queste differenze che sono tante e sostanziali.

Rimanderei gli studiosi, per un approndimento, a “Lingua Arberisca Restituenda” e al mio “Saggio sulla grafia shkjipetara e arberesca”.

 

Professore, il nostro arberesco, come è noto, è una forma arcaica di albanese e spesso con varianti da luogo a luogo e a volte questo fa si che, noi del catanzarese e crotonese, non sempre riusciamo a capirci con quelli del cosentino...

 

Questo ti fa capire quale risultato potrebbe generare un’ulteriore sovrapposizione di una lingua diversa sulla nostra in fase “defungente”!

Sì, per le scuole bisogna considerare la lingua letteraria nostra, quella vecchia, la lingua delle Vale e delle poesie, la lingua delle Rapsodie delle canzoni epiche perchè questa si capisce in ogni villaggio e dev’essere per noi base e misura. Come del resto hanno fatto in Grecia quando hanno sancito la lingua comune detta “demotikí”.

De Rada non si sbagliava nel dichiarare che da noi vi è la culla della vera cultura arberesca e che da noi bisogna attingere.

Per questo motivo è giusto che l’appello della salvaguardia del tesoro della bizantinità nostra non cada nel vuoto.

Noi rivolgiamo con tutto il cuore e in particolare ai fratelli dell’arberia cosentina di non sciupare la grande gloria che De Rada ci ha lasciato.

Se la lingua di De Rada deve vivere deve vivere con onore.

Se la lingua di De Rada deve morire, deve morire con onore, come una grande signora del tempo passato e non come una vecchia con “make-up” perchè a noi è necessario soltanto un “come-back” a De Rada.

Questo è il migliore contributo che si può dare in occasione di questi festeggiamenti in onore del grande Girolamo De Rada.

 

Professore, io l’ho ascoltata con grande interesse e stima.

Ma le sue risposte non rappresentano una piccola parte di quanto ampiamente Lei ha trattato sin dal 1965 nel testo: Gluha, 5 “Flámuri edhé Vistári”?

 

E’ così, non ti sbagli, il mio pensiero è trattato in “Flamuri edhé Vistári”, “Lingua Arberisca Restituenda”, “Saggio sulla grafia Schipetara-arberesca” e ti ringrazio del tuo costante ricordo e stima che continui ad avere per me.

Note:

(1) (De Rada, in un periodo storico lontano dal nostro,  insieme ad altri poeti e scrittori arbereschi partecipano ai moti risorgimentali italiani e intanto sognano l’affrancamento della loro madre-Patria a nazione indipendente e quindi rievocano Shkanderberg, eroe nazionale albanese, difensore della cristianità e studiano il ricco e vario patrimonio culturale degli insediamenti arbereschi, tentando di sistemare e per la prima volta, la lingua scritta).

(2) (Naim Frasheri, nato a Frashër, Albania Meridionale nel 1846 e morto a Instanbul nel 1900, figura eminente del movimento patriottico e culturale della seconda metà del 1800, considerato dagli shkjipetari il loro periodo risorgimentale, dal popolo e dalla sue tradizioni orali attinse il linguaggio per fissare sulle pagine dei libri il patrimonio antico finora tramandato per via orale.

Di grande importanza quindi fu il suo contributo alla sistemazione di una lingua scritta e all’unificazione dei dialetti esistenti in due ramificazioni principali: il ghego del Nord e il tosco del Sud.

Nel tempo e ancora nel 1972 un altro congresso di ortografia si è tenuto a Tirana sancendone l’unificazione stessa. Ma la questione è tuttora in evoluzione.

(3) (Vi parteciparono Luigi Lauda e Gerardo Conforti da Greci, Anselmo e Luigi Lorecchio da Pallagorio; Girolamo De Rada, Domenico Antonio Marchese e Luigi Petta da Macchia; Angelo Ferrari, Bernardo Bilotta, Domenico Magnelli professore e Domenico Magnelli notaio da Frascineto; Pietro Camodeca da Castroregio; Francesco Saverio, Giovanni Andrea e Achille Tocci da S. Cosmo; Giuseppe Nocito, Salvatore Cassiano e Agostino Ribecco da Spezzano Albanese; Antonio Argondizza da San Giorgio Albanese; Nazario Lo Nigro da Terranova del Pollino; Luigi Frega da San Basile; Eugenio Mortati da Civita; Salvatore Liguori da S. Demetrio Corone; Antonio Scura da Vaccarizzo Albanese e Francesco Dragosei da Corigliano per Giuseppe Iorizzo da Acri, numerose furono le adesioni di tutti gli altri insediamenti)

Il comitato:Girolamo De Rada, presidente; sac. Antonio Argondizza, vice presidente; Gerardo  teologo Conforti; sac. dott. Ferrari, dott. Agostino Ribecco, abate Luigi Lauda.

Presidente onorario Francesco Crispi.

Le adesioni: Consiglio comunale di Pallagorio, ; sindaco di Frascineto; 200 cittadini del Comune di Greci; 72 cittadini del Comune di Castroregio; 72 cittadini del Comune di Portocannone; 18 cittadini del Comune di Pallagorio; 25 cittadini del Comune di San Nicola dell’Alto; 22 cittadini del Comune di Carfizzi; 42 cittadini del Comune di Firmo; 8 cittadini di Vaccarizzo Albanese in nome della gioventù; 15 cittadini di Macchia e San Demetrio; 9 cittadini da San Cosmo, a nome dell’intera cittadinanza; 16 cittadini di Lungo; Zavoianni Effendi, console di Turchia in Bari; Giuseppe Schirò da Piana dei Greci; Stefano Varipopa da Carfizzi; Gioacchino Primerano, residente in Campobasso; Luigi De Simone, residente in Lecce; Federico Ferraioli da Santa Sofia D’Epiro; Alberto stratigò da Lungro; Salvatore Stratigò da Firmo; Giovanni Damis da San Basile; Beniamino Posteraro da Cerreto; Giuseppe Parapugna da Frascineto; Giuseppe Iorizzo da Villanova; Gennaro Lusi da Greci; Francesco Lorecchio, Carmine Greco, Raffaele Proto, Domenico Ruffa, Salvatore Balsamo, Antonio Berardi, Donato Morelli e Carmine Ferraro da Pallagorio; Francesco Saverio Samengo da Lungro; Vincenzo Pagano e il deputato Conte d’Alife).

(da: Società, Comitati e Congressi Italo-Albanesi dal 1895 a 1904 di Giovanni La viola; L. Pellegrini Editore in Cosenza 1974).

(4) Michele Gangale, nato a Carfizzi, provincia di Crotone, nel 1950 è stato, negli anni ’70, un validissimo collaboratore del prof. Gangale. Ha conseguito la laurea in materie letterarie a Bari e il dottorato in filologia moderna a Padova.

Vive dal 1979 a Duino Aurisina, dove è stato cofondatore e presidente dell’associazione culturale “Il Circolo 1991 – Krožek “.

Docente di letteratura italiana e latina, coordina il laboratorio multiculturale del Liceo Scientifico “M. Buonarroti” di Monfalcone.

Recensioni e contributi sulle problematiche dell’identità e del convivere sono apparsi su alcune riviste (La battana, Ares, Katundi Ynë, Nuova rassegna di studi meridionali, Arbitalia).

Riporto la nota n.11 di M. Gangale da “Percorsi dell’identità. “ Appunti sulle Comunità di madrelingua arbyresh in Italia” pp. 77-84 della Rivista “Il Territorio” n. 17- Anno XXV, Rivista semestrale di storia, memoria, cultura, fotografia, ambiente; Edizione del Consorzio Culturale del Monfalconese.

“Alcuni papas e studiosi, in Calabria e altrove, usano parlare a volte dell’Albania come “madrepatria”, per sottolineare l’unità “etnica” delle popolazioni “albanesi”. Una tale impostazione dimentica che gli “arbyresh” venivano da diverse aree balcaniche, ma in particolare dall’Albania meridionale e dalla Grecia meridionale (Morea, ovvero Peloponneso) e ignora i “percorsi identitari”, l’incidenza, cioè, delle vicende storiche, gli apporti nuovi che sono intervenuti in cinque secoli e che hanno portato le comunità arbyresh e le popolazioni schipetare a percorrere itinerari storici e culturali diversi.

Gli arbyresh, in realtà, non hanno una terra originaria e storicamente determinata cui ricondursi o richiamarsi. Nel comune sentire gli arbyresh sono del tutto estranei in particolare alle elaborazioni dell’ “Albanesità” (discendenza comune dagli Illiri, culto dell’etnia e della nazione, ideologia del nemico), coltivate nell’800 e nel ‘900, e tuttavia resistenti nel tessuto sociale, in Albania.

Per gli arbyresh la “madrepatria” può consistere piuttosto in un mito, nel mito della Morea, ovverosia nel mito dell’erranza, da rileggere e da “inverare”. La collaborazione tra comunità arberische e comunità schipetare va maturata sul terreno della ricerca culturale tra lingue imparentate e ancor più sul terreno della ricerca e della condivisione di un ethos più alto, sul terreno dell’impegno per il con-vivere nell’area balcanica fuori da qualsiasi animosità “etnica”.

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