Frammenti di vita a Pallagorio

 

La raccolta di testimonianze orali curata da Enrico Ferraro offre materiali ricchi di interesse, sulla cultura materiale, sulla vita di relazione, sul rapporto col sacro, in un paese calabrese di lingua arbyresh. L’anziana narratrice rievoca momenti di vita e scenari sociali, che possono riuscire importanti per chi si occupa di storia sociale e di “culture”. Il lavoro inoltre assume rilievo perché offre una documentazione sui caratteri della parlata arbyresh di Pallagorio. Pallagorio (Puheriu) rappresenta un microcosmo sociale, chiuso nelle sue antiche tradizioni, una società tradizionale i cui ritmi sono scanditi dai lavori agricoli o artigianali, dai lavori domestici, dai riti stagionali e religiosi.

La rappresentazione di questo microcosmo è condotta dalla narratrice da un osservatorio “popolare”, cioè dalla condizione di chi partecipa di una certa condizione sociale e culturale, diffusa e decisamente prevalente tra la popolazione (molto esigua era infatti la piccola borghesia, qualche maestro, il prete, il medico, l’impiegato; si registra la presenza di poche antiche famiglie di possidenti, la cui visibilità è data dal “Palazzo”. I comportamenti le relazioni, i ruoli tengono conto di questi caratteri sociali. La narratrice richiama i nomi dei rioni costitutivi del paese (p.3), - ogni paese aveva i suoi rioni più antichi, che riconducono alle origini lontane, alle diverse stratificazioni. Ci sono i rioni storici e ci sono le chiese,

Le chiese e i santi segnano della loro presenza il microcosmo di Pallagorio; esse sembrano delimitare il territorio, segnarne a tratti un limite: così la chiesa madre è segnata da un riferimento spaziale (kisha po, p.3), la parte estrema, il confine del paese. Forse ciò non avviene per caso: i santi, infatti, si  configurano come presenze fraterne, familiari, protettive, come parte integrante di quel vivere e di quelle relazioni sociali.

Le numerose chiese ospitano santi i cui nomi richiamano antiche leggende (nota)

La festa maggiore riservata alla madonna del Carmelo cade nella seconda domenica di maggio

(il mese di maggio configura il rinnovarsi della vita, secondo antichi miti precristiani).

La morte e il magico rappresentano un momento diffuso e costante, che si manifesta in diverse volte nella narrazione. Si veda il brano,“Palazzo dei Lorecchio” (p.6), che fa riferimento alle abitudini e al modo di porsi delle casata altolocate: esse abitano nel palazzo, vivono in una loro separatezza, rispetto al resto della popolazione - da qui forse una certa curiosità, il bisogno di indagare quando si dà l’occasione, quando qualcuno va a bussare, una curiosità propria delle donne altolocate che vivono e trascorrono le lunghe giornate nel “Palazzo”. Una tale curiosità e un tale bisogno si manifesta, in particolare, vivacemente e graziosamente, se a recarsi da loro è una bambina del popolo. I poveri, infatti, talvolta si recavano presso il “Palazzo” per fare doni alle famiglie altolocate (nel brano si parla di una cesta di cicorie ben pulite), dalle quali potevano attendersi protezione e soccorso, in situazioni estreme.

La separatezza del palazzo si interrompe, però, in certo modo, durante la ricorrenza del giorno dei morti. Tale giorno è caratterizzato dalla pratica della beneficenza rivolta alla parte più povera della popolazione.

”Era consuetudine che ogni anno nel giorno dei morti il palazzo rimanesse aperto, per accogliere i poveri e offrire loro un pane e un litro d’olio” (p.6).

Tale pratica sociale sembra assumere una funzione apotropaica, propria dei riti di antiche culture: i morti, con cui è possibile comunicare, ormai partecipi del mistero, in modi diversi possono manifestare la loro presenza suscitando inquietudini. Essi vanno pertanto placati. Questo il senso profondo della pratica del dono nel giorno dei morti.

I miracoli, gli eventi magici (la statua di santa Filomena Piccola che si affaccia alla finestra e si mette a parlare, rappresentano un momento costitutivo di quel mondo; i santi sono protettori,

Interlocutori; rappresentano una presenza affettuosa. Un evento magico può avere risvolti nella vita

e nell’equilibrio delle persone: così la storia di santa Filomena Piccola si configura come un evento consolante, capace di compensare la mancata maternità delle donne di una famiglia altolocata.

La presenza della morte, la prospettiva apotropaica trova poi sviluppo nel brano

“Alla morte di una persona”: (p.36)

Alla morte di una persona, di giorno o di notte veniva buttata, fuori dalla porta dell’abitazione, una fetta di pane per far si che i cani l’addentassero lasciando passare indenne lo spirito del defunto.

Nella tasca del defunto venivano messe delle monete per il pagamento del passaggio nell’oltretomba e un fazzoletto per le sue necessità. 

E poi ancora la presenza degli spiriti che si annidano nelle vecchie case: scatta nei vivi il bisogno di intervenire, di placarli attraverso il rito gestito da figure istituzionali credibili (il prete, la fattucchiera).

Un segno di mistero e di paura avvolge la casa che ha conosciuto eventi magici (al calare della sera tutti gli oggetti appesi al muro si staccavano e cadevano a terra; si sentivano ballare in mezzo alla camera esseri invisibili); la memoria di questi eventi perdura a lungo e “si farà fatica a vendere quella casa”.

Solo l’intervento delle figure deputate socialmente a esorcizzare gli spiriti, può interrompere tali accadimenti, sconvolgenti, e ristabilire un equilibrio interrotto da presenze e da fatti inquietanti.

Negli antichi riti pasquali (il cesto germogliato, p.78), la devozione cristiana si coniuga al rinnovarsi di riti precristiani, legati al germogliare della vita e al fiorire della natura:

Ogni anno prima che si allestisca in chiesa il Sepolcro, le persone, a Pallagorio, preparano “il cesto germogliato” da mettere in chiesa nel Sepolcro.

Il cesto si fa così:

-Si mette in un piatto della stoppa, dei semi di grano, dei ceci e dell’acqua.

Si ripone in una cassapanca al chiuso oppure sotto una caldaia in modo che entri aria ma che non entri luce.

Di tanto in tanto, facendo attenzione che non entri luce, si aggiunge dell’acqua finché dai semi non nascano rigogliosi tanti germogli molto belli e verdi.

Nel giorno in cui si allestisce il sepolcro in chiesa, il mercoledì, ognuno offre il suo cesto germogliato abbellito da fiocchi e fiori di tanti colori.

Le persone che vanno ad ammirare Gesù nel Sepolcro ammirano i vari cesti germogliati che lo circondano e si chiedono chi ne è l’autore.

Insieme agli altri semi, alcune persone usano far germogliare semi d’avena e il cesto diventa ancora più bello.

L’identità della narratrice è legata alle antiche leggende, ai ritmi lavorativi, al territorio e alla sua conformazione, ai riti stagionali, ai saperi che alimentano la cultura materiale; un’identità che non esprime mai opposizione o contrapposizione verso altre comunità e che si manifesta soprattutto attraverso la madrelingua arbyresh, attraverso le parole antiche che raccontano e nominano le cose, il farsi dei giorni, la memoria, le luci e le ombre:

La lingua si configura come parte integrante del proprio esistere, non ha bisogno di venire richiamata, ribadita o enfatizzata; essa è accolta e vissuta pacatamente.

A tratti, spontaneamente, una illuminazione: ”nella nostra lingua si dice così”,

di una ragazza si dice “sei bella come un oleandro”.

Si manifesta in tal caso, esplicitamente, e viene pensata pacatamente, la propria specificità culturale.

Per brevi illuminazioni, la “parola” si pone come dono e come gioia, come segno di riconoscimento e come veicolo di memoria condivisa.

I materiali raccolti con affetto verso la propria cultura da Enrico Ferraro possono contribuire a risvegliare una memoria fino a ieri condivisa; essi tratteggiano una mappa della memoria, una mappa solcata da rughe e angolature.

Essa può contribuire ad alimentare un bisogno di riconoscimento, un bisogno di resistenza culturale, possono contribuire ad alimentare domande e sollecitare percorsi nuovi di ricerca.

Un contributo importante per la conoscenza del patrimonio linguistico e culturale della piccola comunità di Pallagorio, che conosce situazioni difficili, come, più in generale , conoscono situazioni difficili le altre comunità arbyresh del mezzogiorno.

Una minoranza linguistica quale quella arbyresh, che si è espressa per secoli attraverso una cultura  prevalentemente orale, ha cominciato infatti a conoscere una situazione quanto mai contraddittoria e drammatica, a partire dagli anni sessanta: le comunità arbyresh hanno visto il proprio tessuto culturale e sociale sconvolto dalla depressione economica dall’emigrazione, si sono trovate prive di qualsiasi tutela, fragili e prive di risorse per  ridefinirsi, per non subire passivamente l’influenza dei media. La stessa scolarizzazione di massa non ha aiutato la minoranza arbyresh: l’insegnamento, infatti, era impartito, ed è tuttora impartito solo in italiano, la scuola, in genere, non dedica spazio o attenzione alla cultura arbyreshy. Il bambino , pertanto, è portato a sminuire l’immagine della propria cultura o di quanto di essa sopravvive. Il patrimonio linguistico e culturale di queste comunità, da alcuni decenni, conosce dunque una profonda crisi. Solo una svolta, una tutela sostanziale, il delinearsi di un’attenzione e di una sensibilità nuove,che si accompagni alla cessazione delle migrazioni verso le aree industrializzate e prospetti condizioni di sviluppo, potrebbe segnare una inversione di tendenza, potrebbe in parte risarcire la “perdita”.

In un quadro mutato, le comunità arbyresh potrebbero operare per una ridefinizione di se stesse, della propria identità pluriculturale, per una presa di coscienza attraverso la conoscenza critica del proprio passato e del proprio presente; tutto ciò in una prospettiva di dialogo con il mondo in cui queste comunità sono inserite e con il quale condividono molte cose- così in Calabria, in questo secondo dopoguerra, hanno condiviso con le popolazioni calabresi le lotte sociali per la terra e poi l’esperienza migratoria verso le aree industriali, fattori forti di una memoria comune condivisa..

Più volte si ripete che le culture delle minoranze rappresentano una risorsa importante per l’Europa dei popoli. Ma una tale convinzione ha bisogno di impegno e di risorse, per maturare, per farsi progetto, per diventare senso comune, in Italia e in Europa.

 

Duino Aurisina, dicembre 2000                                  

Michele Gangale

 

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